Del mio amore viscerale che mi lega a una piccola città di provincia in questa terra ho già parlato.
Ma non sono certa di aver parlato del tuffo al cuore che sento ogni volta che, passati gli alti palazzi di Bologna, vedo davanti a me distese infinite di campi e pianura, solo pianura, fin dove l’orizzonte si perde.
Una ernorme tratto di terra e verde dove spuntano isolati casolari antichi, case disabitate, ormai ruderi di un passato contadino che c’è e non c’è.
Di tramonti di sole color ocra e nuvole sparse, tinte di rosso, giallo e arancione.
Di silenzi e notti buie, con le stelle come occhi luminosi lì, puntati a guardarti. Occhi dentro gli occhi.
Di chiese e palazzi, di case ancora in mattoni, di cani al guinzaglio dei loro padroni che scondinzonalo quieti. Di anziani che incrociano con mestizia le mani dietro la schiena a sorreggere il peso degli anni e delle età che passano.
Di piazze e duomi, di vicoli e ciotoli, di passi che rimbombano muti. Di un gatto che solo, nel vano di una finestra, pigramente si lecca una zampa. Di domeniche dove suona dolce la campana del mezzogiorno e di odori di minestre e piatti fumanti. Di sorrisi a mezze labbra, di segni brevi che stanno a significare “buongiorno e arrivederci” nello stesso tempo.
Di mani amiche e di mani che ti lasciano.
La mia Emilia.
Questa terra con il monte Appennino che la guarda di sottecchi e il mare lontano. La mia terra di sognatori e uomini persi, di domeniche in casa tra risa chiassose e il giorno che lento muore e va. Di solitudine e quiete.
Questa terra è anche la “mia” terra. Ovunque io guardi, ogni volta che ci torno, sento la malinconia riempirmi il petto. Riempirlo fino a farmi quasi male. Di quel dolore dolce e per me così prezioso è fatta questa terra, la mia terra.
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