Quando parliamo di sostegno ambientale intendiamo il sostegno che ci viene dall’esterno, da mamma, babbo, fratelli. Amici, compagni, mariti, mogli, figli e, ovviamente, anche dallo psicologo. Tutto il supporto e il sostegno, quindi, che possiamo avere dall’ambiente intorno a noi.
Il supporto ambientale, quando siamo bambini, è fondamentale. Ci permette di diventare le persone che siamo ora. Sono tantissimi gli studi sul ruolo del caregiver principale (di solito la madre) e di come sia importante che sia empatica, sappia cogliere i bisogni del neonato e lo aiuti a sviluppare delle competenze emozionali, cognitive e relazionali che poi lo accompagneranno per tutta la vita.
Winnicott parla in particolare di tre funzioni che una madre sufficientemente buona (grazie Donald per questa affermazione, credo che le madri di tutto il mondo te ne siano grate o, almeno, io lo sono) dovrebbe avere per aiutare il bambino ad avere uno sviluppo sano:
- holding significa sostegno ovvero fungere da contenitore di una individualità ancora non definita, in modo da contenere le angosce del bambino e di essere uno spazio, fisico e psicologico, sicuro in cui il bambino possa cominciare a essere e esprimere sé stesso;
- handling significa manipolazione ovvero attraverso la cura corporea che la madre ha del bambino è come se permettesse un’unione tra il suo corpo e la sua psiche, unione che altrimenti non avviene e può dare origine a fenomeni di depersonalizzazione;
- object presenting significa presentazione di oggetti, ovvero la capacità della madre di presentare al bambino, intuendolo empaticamente, l’oggetto che il bambino stesso desidera, di cui ha bisogno, permettendogli così di credersi onnipotente (che, per Winnicott, è una fase naturale dello sviluppo).
Winnicott teorizza il concetto di madre sufficientemente buona (grazie davvero Donald…) in cui l’idea è che una madre sappia quando accontentare il figlio e quando, invece, frustrarlo. La madre compie dei micro fallimenti nell’accudimento che portano il bambino, attraverso la frustrazione quindi, a relazionarsi con il mondo esterno.
Perché parlo di questo? E cosa c’entra con l’autostostegno?
Il punto è che, oggi, noi non siamo più dei neonati o dei bambini indifesi, spesso però ci comportiamo come se lo fossimo, sperando che siano gli altri a assumersi la responsabilità di una scelta che ci riguarda. Cerchiamo di manipolare gli altri, fingendoci deboli, o credendoci incapaci di agire e scegliere, lasciamo che siano gli altri a farlo per noi. Inconsapevoli, forse, che anche il non scegliere, anche restare nell’indecisione, è già una scelta e una scelta precisa.
Non augurerei a nessuno di trovarsi totalmente privo del sostegno ambientale. Io più che mai sperimento la necessità di un confronto e un aiuto dai miei amici, dal mio compagno, dalla mia psicologa, dai miei genitori. Non è questo, però, il punto.
Il punto è, intanto, assumersi la responsabilità di chiedere aiuto in caso di bisogno. Di dichiarare la mia difficoltà, le mie paure, i dubbi, i dolori e chiedere all’altro. L’altro, di fronte alla mia richiesta, ha la sua libertà che include il poter dire no o il poter dire sì. O forse, anche di non rispondere.
L’autosostegno è la capacità di guardarsi con benevolenza, consapevoli che siamo tutti dei poveri esseri umani, ma che non siamo nemmeno così male come il nostro Top Dog (o Persecutore Interiore) ci vuole fare credere. Significa assumersi la responsabilità di correre il rischio di una scelta, qualunque essa sia e essere consapevoli che c’è un prezzo, spesso molto salato, da pagare. Che solo noi e noi soli, possiamo dirci se quel messaggio che abbiamo scritto e riscritto è ok per noi, se ci fa bene o magari ci fa male, ma vogliamo mandarlo lo stesso.
Solo noi sappiamo come mai per noi è tanto importante quella situazione, quella Gestalt inconclusa e solo noi abbiamo il potere di chiuderla. Non un altro, non lo psicologo, non la mamma e nemmeno il babbo.
Noi, ora, qui. Per cercare di trovare una modalità espressiva creativa, nell’ottica che quel che è “giusto” per noi, allora va bene. Che non esiste un’altra persona sulla faccia della terra che farebbe così, esattamente come abbiamo deciso di comportarci noi. E di correre il rischio di cadere. Ogni volta. E ogni volta di assumersi la responsabilità di rialzarsi, oppure no. Di stare un po’ giù che va bene anche così.
L’autosostegno infatti non è certo stare sempre bene o vedere il mondo sempre colorato. Significa anche accettare i propri limiti e le proprie sconfitte. Che sono tante e tanto dolorose a volte. E che nonostante questo, nonostante le lacrime, i dubbi, il dolore immenso che in un percorso di terapia si prova, ci sono anche tutte quelle emozioni che sembravano sopite e spente: l’amore, la gioia, l’emozione per le piccole, minuscole, cose. Un messaggio sentito, un cane che scodinzola, un biglietto d’auguri, una telefonata improvvisa. Il sole che filtra tra le finestre, il respiro calmo di un bambino addormentato, le volte che riesci a dire e che ti dicono “ti voglio bene”.
Autosostegno è darsi il giusto valore, né troppo né troppo poco. Essere sé stessi come si è, assolutamente incasinati, paurosi, dubbiosi, incerti e pieni di vita. Dire sì, dire no. Scegliere e andare avanti per la propria strada, anche se è quella meno battuta nel bosco.
Perché noi siamo noi, unici, meravigliosamente diversi e disperatamente umani.
E per essere umani, esattamente così come si è, con le debolezze, il dolore lancinante, gli scoppi di pianto improvvisi, le risate sguaiate, le parolacce urlate, le bestemmie sottovoce, il male che ci siamo fatti e quello che ci siamo lasciati fare, tutto l’amore che abbiamo dato e anche tutto quello ricevuto. Dicevo, per fare vedere chi siamo, così, meravigliosamente umani e unici, ci vuole coraggio.
Il più grande coraggio di tutti: lasciarsi guardare e guardarsi per quello che si è. Senza bisogno che siano gli altri a dirci che andiamo o non andiamo bene.
Io sono così, molteplice. Magari piace agli altri, magari no. Intanto, sarebbe fondamentale che piacesse a me stessa.
– Ma tu mi ami? chiese Alice.
– No, non ti amo rispose il Bianconiglio.
– Alice corrugò la fronte ed iniziò a sfregarsi nervosamente le mani, come faceva sempre quando si sentiva ferita.
– Ecco, vedi? – disse Bianconiglio – Ora ti starai chiedendo quale sia la tua colpa, perché non riesca a volerti almeno un po’ di bene, cosa ti renda così imperfetta, frammentata. Proprio per questo non posso amarti. Perché ci saranno giorni nei quali sarò stanco, adirato, con la testa tra le nuvole e ti ferirò. Ogni giorno accade di calpestare i sentimenti per noia, sbadataggine, incomprensione. Ma se non ti ami almeno un po’, se non crei una corazza di pura gioia intorno al tuo cuore, i miei deboli dardi si faranno letali e ti distruggeranno. La prima volta che ti ho incontrata ho fatto un patto con me stesso: mi sarei impedito di amarti fino a che non avessi imparato tu per prima a sentirti preziosa per te stessa. Perciò Alice no, non ti amo. Non posso farlo.
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