Il terapeuta come guaritore ferito

La psicologia si interessa agli esseri umani, a conoscere sé stessi e gli altri.
Certo, il fine della psicologia è anche quello di tentare di stare meglio, ma di fondo, alla base, deve esserci una curiosità, anzi oserei dire persino un innamoramento degli esseri umani e del funzionamento della mente, propria e altrui, delle emozioni che ci abitano e di quelle che abitano l’altro, diverso da noi, siamo mossi da un desiderio profondo di comprenderci e di comprendere gli altri.

Il terapeuta è una persona che, come lo sciamano, l’apprendista stregone, ha una ferita fisica e/o psicologica che gli consente di avvicinarsi agli altri e guarirli. Quindi l’idea che per avvicinarsi a un’altra persona che soffre, è necessario aver a nostra volta sofferto.

Che la cura passa attraverso questo dolore, questa ferita appunto. (Ho scritto un post recentemente in cui parlavo di “crepe” nel cuore, causate da profondi dolori e sofferenze, e di come, allo stesso tempo proprio da quelle crepe entrasse l’amore, entrasse la luce).

Scrive a tal proposito Chandra Livia Candiani ne “Il Silenzio è cosa viva” “Questa crepa che si allarga. Quando sarò tutta crepa, sarò di nuovo intera”.

Anche i giapponesi, quando riparano un oggetto rotto, lo fanno valorizzando la crepa riempiendola d’oro, perché credono che quando qualcosa ha subito una ferita e ha una storia, diventa più bello.

Le crepe, le ferite, i dolori non come qualcosa da nascondere, da non mostrare, ma qualcosa da conoscere, frequentare, accettare, amare.

Bisogna, quindi, conoscersi e conoscere le proprie ferite per stare in una relazione d’aiuto. Conoscere il proprio funzionamento mentale e emotivo, sempre con un’attenzione a tutte quelle parti di noi che non ci piacciono e, anche a quelle che ci piacciono.

Con in mente sempre le domande fondamentali a cui spesso, se non sempre, è molto scomodo rispondere “che cosa ci guadagno?” e “che cosa ci perdo?”.

Il terapeuta, quindi, come uno sciamano, un guaritore ferito appunto, che attraverso le crepe e le ferite del suo cuore, del suo corpo, può conoscere, avvicinarsi, stare e restare e, solo infine, curare le ferite dell’altro. Non è stupenda questa cosa?

Voglio specificare quel che per me è ovvio, ovvero che uso il termine “curare” non in senso strettamente medico, come un rimedio che gli psicologi, ovviamente, non hanno.

Se guardiamo l’etimologia della parola cura questa è un interessamento attento e sollecito; un riguardo, un’attenzione; un rimedio, ma anche una preoccupazione, un affanno.

Scrivono su Una parola al giorno (che vi consiglio di seguire) che “cura è un termine eccezionalmente resistente, lo usavano tal quale ventiquattro secoli fa, ed è stato usato senza soluzione di continuità (diciamo che è stato tenuto con cura da tutti). Già agli albori aveva un’ambivalenza simile a quella che ha per noi: cura è innanzitutto il riguardo, l’interessamento attento e sollecito, ma in un registro più elevato è anche la preoccupazione, l’affanno.

Il suo significato è maturato in una dimensione di temporalità: l’attenzione può essere istantanea, fatuo l’interessamento, la cura no. Fare attenzione ai fiori, interessarsi ai fiori o prendersene cura sono atti profondamente diversi. La cura segue un processo, segue un progetto che si sviluppa fra passato, presente e futuro. E possiamo distinguerne un altro tratto essenziale: l’apertura.

Aver cura significa avere a che fare. La cura non solo si interessa, ma partecipa. L’aver cura può accompagnare in libertà, nel disporsi alla scelta di possibilità autentiche, e può farlo guidato dalla sensibilità propria, dalle rivelazioni dell’empatia. È un concetto senza sinonimi (forse, in una certa misura, potrebbe esserlo amore?).

Ma in pratica, che cos’è la cura? Certi tipi canonizzati di cura, come la cura medica, ce ne danno un profilo chiaro e distinto di rimedio.

Però spesso la cura, in quanto riguardo, riconoscimento, è più impalpabile. Promette una comunicazione, una complicità, un senso condiviso; non si esprime tanto in un’azione, quanto in un modo d’essere coinvolti”.

Già con il mito di Asclepio si parla del guaritore ferito che cura, proprio attraverso questa ferita. Il mito racconta che Apollo si innamora di Coronide mentre questa fa il bagno in un lago. Apollo giace con la fanciulla e la lascia con a guardia una cornacchia, Coronide decide poi di sposarsi con Ischys, quando la cornacchia se ne accorge, vola da Apollo ad informarlo. Coronide però oramai era incinta, Apollo decide di punire la cornacchia tramutandole le penne da bianche a nere.  Artemide vendica il fratello disonorato, uccidendo Coronide trafiggendola con un dardo, Apollo salva il figlio di Coronide e chiede a Ermes di estrarlo dal corpo della madre morta e dà a questo bambino il nome di Asclepio.

Cosa ci dice questo mito? Ci dice che vita e morte sono simultanee, che non esiste la vita senza la morte.

Nelle tradizioni antropologiche i giovani che venivano scelti come apprendisti sciamani avevano delle deformità fisiche o delle esperienze prossime alla morte.

Vivere con una malattia e creare un rapporto conscio, consapevole con essa, prepara i guaritori a fronteggiare le sofferenze dei pazienti. Quindi il guaritore ha avuto un contatto con energie al di fuori del controllo consapevole. 

Detto con altre parole, per essere tolleranti con gli altri è fondamentale imparare a esserlo con sé stessi, per accogliere, consolare, stare con il dolore dell’altro dobbiamo conoscere il nostro dolore, le nostre ferite. Per sostenere la rabbia altrui e permetterne l’espressione, per forza è necessario avere confidenza con la nostra rabbia e così via, per tutte le emozioni di base che noi sappiamo essere gioia, rabbia, dolore e paura. Anche imparare a stare in contatto con l’Amore, il piacere, la gioia può essere difficile.

Conoscere le nostre emozioni, le nostre parti interiori, le nostre ferite fisiche e psicologiche ci permette di stare in relazione, in contatto con noi e con l’altro. Nel contatto va detto che io non devo essere buono eh. Il contatto, come dice Quattrini, può anche essere che magari ti mando a fanculo.

Quindi, tornando al mito di Asclepio, lui nasce nel momento in cui la madre muore, quindi vita e morte sono legate.

Possiamo dire che l’apprendista stregone, lo sciamano, è colui il quale ha già una ferita fisica e psicologica che gli consente di avvicinarsi agli altri e “guarirli”. Guarirli qui lo uso in senso lato, direi accompagnare l’altro, stare con l’altro. Essere in contatto con sé e con l’altro e aiutarlo a trovare un suo modo di aiutarsi.

Scrive Mazzei, in un articolo “Le polarità, tra Gestalt e tradizione”, che “lo sciamano attinge dal mondo del Nagual, ovvero un mondo che include tutto ciò che è invisibile, percepibile solo acquistando la visione: la realtà separata, il regno del mistero, dell’astrale, che si manifesta attraverso l’intuizione, nella fantasia, nel sogno e che si può esprimere con la metafora e col simbolo che appartengono appunto al mondo del Nagual”.

Che  è quello che diciamo quando parliamo di intuizione, fantasia, di attenzione a tutti i segnali di comunicazione non corporei, di metafore. Usare una metafora è utile e potente perché richiama un’immagine che intanto non ci mette in condizione di giudicare l’altro e allo stesso tempo evoca. Evoca emozioni, sensazioni e immagini con le quali poi, io faccio quello che credo.

Che mi pare possa anche equivalere a domandarsi cosa ci vuole dire una persona oltre a quello che dice verbalmente? Dobbiamo considerare che le parole spesso servono a celare, nascondere piuttosto che rivelare.

Scrive Perls in “Psicopatologia della consapevolezza”: “Le parole, ho scoperto, servono soprattutto a mentire, mascherare e spiegare, ma un rossore, uno sguardo spaventato, lo stringersi di un pugno e così via rivelano la vera persona.

Soprattutto: è la voce e non il contenuto che mostra la persona (per-sona: attraverso il suono).

Il boato pomposo dell’estroverso dal petto gonfio, il borbottio della modestia compulsiva, lo spezzato stridio delle streghe, la monotonia della mascella tesa del gangster che fa il duro, sono cose che sentite, ne sono sicuro.

Ma le esitazioni, la fretta, l’ansia senza respiro, i sospiri di sollievo. lo spegnersi o l’aumentare del volume dell’autoaffermazione, valgono la pena di essere ascoltati. Eppure… chi ascolta?”

Come terapeuti è fondamentale allenare questa capacità di ascolto e di attenzione a tutti i segnali non verbali, alle esitazioni nella voce, al tremore delle mani, ai silenzi, alle pause, ai sospiri, alle gambe che non riescono a stare ferme, alla postura di una persona. Sono tutti segnali che ci comunicano qualcosa e a cui è fondamentale prestare ascolto.

Scrive ancora Mazzei: “Il Tonal è il mondo della consapevolezza ordinaria, la cosiddetta realtà, e quindi il dato osservabile attraverso i sensi ordinari: tutto ciò che è razionale e logico.

Il compito dello sciamano è quello di unire il Tonal ed il Nagual. Questa operazione è chiamata il colpo del Nagual.  

Tale ottenimento è di fatto la realizzazione della condizione di Indifferenza creativa di cui parla Perls. È la condizione che può essere realizzata nella meditazione Vipassana quando astenendosi dal giudicare e dall’aver preferenze su ciò che sorge alla propria consapevolezza si vedono le cose per quelle che sono. È anche l‟obiettivo dell’atteggiamento fenomenologico”.

Detto in parole più semplici, è stare con quel che c’è, in questo momento, nella consapevolezza del qui e ora.

Ancora sullo sciamano e sulla sua vicinanza con la pratica terapeutica e, possiamo citare Claudio Naranjo: “Gli sciamani e guaritori, sono persone ferite che imparano a curare se stessi; e imparando a recuperare la propria salute, acquisiscono la capacità di curare gli altri. É un processo spontaneo e naturale. La vocazione ad essere sciamano ha a che fare con la vocazione al malcontento, al non uniformarsi a ciò a cui gli altri si uniformano. Uno sciamano è una persona che sente molto le sue ferite. Tutti nasciamo feriti, per l’impatto di nascere nel mondo. La maggior parte delle persone si adatta ma lo sciamano è l’esatto contrario: ha molto contatto con questa sua esperienza. E questa sua inquietudine lo porta a non avere altra scelta che guarire la sua anima, incontrando in questo cammino cose che altri non incontrano“.

Quindi di tutto questo excursus teorico quello che mi interessa, che mi colpisce è intanto il desiderio di stare in contatto con sé stessi e con gli altri e l’idea che è attraverso le ferite, le crepe, che possiamo conoscere noi stessi e gli altri e cercare di aiutare l’altro a aiutarsi a trovare un suo modo di essere, di stare, di agire nel mondo. Un modo, se possibile, più integro, più aderente all’essere che al dover essere.

Qualcosa che ha a che fare con l’essenza di una persona.

Noi siamo quel che siamo. Accettarlo è il lavoro di una vita e, soprattutto, ricordarsi che sì, noi siamo quel che siamo e questo è evidente, ma allo stesso tempo possiamo scegliere di fare cose diverse, di agire diversamente, di comportarci diversamente. In questa esplorazione che oggi mi piace definire sciamanica, e che rende la vita più degna di essere vissuta, anche quando è assolutamente più complicata e difficile di quanto vorremmo.

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